12.8.11

“La Patagonia! È un'amante difficile. Lancia il suo incantesimo. Un'ammaliatrice! Ti stringe nelle sue braccia e non ti lascia più”, è il monito che “il Maestro”, un poeta incontrato sul posto, diede a Bruce Chatwin, oltre trent’anni fa, ed è quanto mai veritiero ancor oggi per il viaggiatore – non il turista – che si pone per strada con il cuore e la mente disposti a sognare, a inseguire la magia del misterioso infinito. Ma è anche terra dura, difficile, regno del vento, palestra di chimere e di sconfitte, questa Patagonia, anticamera della “fine del mondo”. Terra eccentrica e tutto sommato ancora poco conosciuta, può davvero rappresentare ancor oggi il simbolo dell’irrequietezza umana e del bisogno di superare il confine, per scoprire cosa si nasconde oltre la siepe di casa… 
Percorrendo l’immensa terra alla “fine del mondo”, non trovi parole più idonee a descriverla, se non quelle stesse appuntate sul taccuino del grande viaggiatore e scrittore inglese, che, mentre l'autobus attraversava il deserto, guardava assonnato “i brandelli di nuvole d'argento che si spostavano in cielo, e il mare grigio-verde di sterpaglia spinosa sparsa sulle ondulazioni del terreno e la polvere bianca che il vento sollevava dalle saline e, all'orizzonte, la terra e il cielo che si fondevano, mescolando e annullando i loro colori”.  E, pur annunciate dalle sue stesse parole, che già conosci a memoria, ti colgono comunque di sorpresa “… le case dei villaggi (…) di mattoni, con tubi di stufa neri e sopra un intrico di fili elettrici. Dove finivano le case di mattoni, cominciavano le catapecchie degli indios, fatte con casse da imballaggio, fogli di plastica e tela di sacco”. E se ti sforzi di superare la tua naturale ritrosia, se, insomma, prendi il coraggio a due mani e provi a… forzare appena un po’ la lieve corazza, pronta a farsi violare, del riserbo della gente che incontri, puoi allora collezionare una messe di microstorie, straordinarie nella loro imprevedibile normalità… Allora, attorno all’asado di montone, che cuoce sullo spiedo a forma di croce e ti sarà servito con salsa salmuera di aceto, aglio, peperoncino, origano e con l’immancabile maté, scoprirai quante di queste piccole-grandi storie di speranza, avventura, fuga e rimpianto delle radici, siano cominciate proprio in Italia, se non direttamente da chi te le racconta, dai padri o dai nonni. Come il tassista di Dalmine, che ha cercato fortuna a Buenos Aires e se l’è costruita in forma di un impianto di lavaggio d’automobili, perdendola poi, nella recente debacle argentina, che lo costringe ora a sbarcare il lunario con la vecchia automobile, che da noi non superebbe certo la revisione. Ha nostalgia dell’Italia, questo argentino/bergamasco loquace, che neppure sospetta come i suoi sogni di fuga e di diversa fortuna siano in fondo gli stessi inseguiti, molti anni prima, dai leggendari banditi Butch Cassidy, Etta Place e Sundance Kid. A lui non sarà dato, probabilmente, di passare alla storia, neppure alla storia criminale, e, certamente, non se lo prefigge nemmeno. Semplicemente si mostra appagato, e un poco commosso, incontrando chi gli regala una frase in dialetto trevigliese. Qui, alla “fine del mondo”, poco gli importa se, a Dalmine, la cadenza è un poco diversa e non si usano molti vocaboli già… della Bassa…


                                                 (Marco Carminati, agosto 2010)

prima data di pubblicazione: 26 agosto 2010 
seconda data di pubblicazione: 12 agosto 2011