24.11.10

Ricercatori asserragliati sui tetti degli atenei, facoltà occupate: questo è l’esito della ripresa dell’iter parlamentare per approvare la riforma voluta da Maria Stella Gelmini. A Pavia studenti e dottorandi hanno occupato le aule e chiesto a gran voce un colloquio con il rettore. La facoltà di Lettere di Palermo è stata occupata al termine di un’assemblea straordinaria degli studenti. Alla facoltà di Architettura della Sapienza di Roma alcuni studenti dell’Udu, ricercatori della “Rete 29 aprile” e del gruppo “Ricercatori precari” sono saliti ieri sul tetto in piazza Borghese: “Intendiamo rimanerci ad oltranza – hanno spiegato – finché non verrà accantonato l’iter parlamentare della riforma Gelmini”. Ed oggi la protesta prosegue, dalle 10, davanti a Montecitorio, in concomitanza con il voto in aula. A quanto pare, ma se ne avrà conferma in giornata, Futuro e libertà non voterà contro la riforma dell’Università in esame alla Camera, nonostante lo sgambetto di ieri durante il voto sull’articolo 4 della ratifica delle modifiche al Trattato dell’Unione europea che assegna all’Italia un seggio supplementare del Parlamento europeo. Secondo quanto dichiarato dal finiano Fabio Granata, infatti, sui punti sollevati dal suo partito ci sarebbero state rassicurazioni da parte del ministro Gelmini. “Il voto finale – ha sostenuto – sarà o l’astensione o il voto favorevole. Comunque non sarà un voto negativo”. Durissima, invece, la Cgil: “Un testo addirittura peggiorato rispetto a quello uscito dal Senato, che si abbatterà sul sistema universitario con effetti devastanti”, come si legge in una nota della segreteria nazionale. In piazza, a Montecitorio, accanto agli universitari, protestano anche gli studenti delle medie e medie superiori. Come ha scritto in una lettera a La Stampa Ezio Pellizzetti, rettore della Uiniversità di Tirono, un più lungimirante governo avrebbe già da tempo avviato un progetto di crescita pluriennale, dal 2011 al 2015 per portare, al ritmo di 1 miliardo l’anno, le risorse per l’Università a 12 miliardi di euro, così da avvicinarci a quei 23 miliardi che rappresenterebbero il finanziamento corrispondente alla media Ocse: l’1,5% del Pil ora calcolato in 1521 miliardi. Come arrivarci? Occorrerebbe che le nuove risorse fossero a priori destinate ad esser distribuite, non in ridicole percentuali del 7 o 5% come ora, su base valutativa. E sarebbe anche ora di distinguere, integrandoli in razionali sistemi di cooperazione, tra Atenei con differente distribuzione di ruoli fra didattica e ricerca. Occorrerebbe poi che la società civile, le forze produttive, le imprese, le banche, le fondazioni, gli enti locali si responsabilizzino, contribuendo in modo serio e consistente al finanziamento di un’istituzione che può rifondere in termini di sviluppo tutto ciò che riceve, ma ricevendo benefici ed incentivi statali. Ma questo governo impegnato in leggi ad personam e lotta fra bande di potere, non può certo trovare il tempo di occuparsi anche di questo. Ieri, il rettore della Bocconi Guido Tabellini, all'inaugurazione dell'anno accademico 2010-2011 ha ricordato che solo cultura e legalità sono in grado di favore un autentico sviluppo economico, problema centrale di un Paese che è passato da una crescita (nel decennio 1950-60) del 55%, a valori irrisori o anche negativi. E, in questo stato di cose, l’Italia rischia di restare intrappolata in una situazione di “equilibrio inefficiente”, cioè in una situazione in cui gli incentivi individuali e le aspettative circa i comportamenti altrui sono allineati e spingono i singoli ad agire in modo controproducente per la collettività. Il 16 novembre, Alessandro Laterza, presidente della Commissione Cultura di Confindustria, in occasione del convegno 'Investire in Cultura: perchè?' organizzato a Milano dalla Fondazione Bracco, ha dichiarato: ''Il privato può partecipare, proporre, ma non può sostituire lo Stato'' e questo in tutto il comparto cultura. Ora, molti governi, anche di sinistra, hanno tagliato sulla cultura, ma questo di ora, in due anni, ha stravolto la scuola, l’università, la ricerca e tutto il comparto pubblico della conoscenza, distruggendo, di fatto, il futuro dei giovani e del Paese, senza pensare minimamente al danno che comporta questa enorme miopia. Al contrario, molti altri Paesi europei, pure in crisi (Germania, Francia, ecc.), hanno invece investito in cultura, cioè sulla scuola, sull’università e la ricerca, stanziando e non tagliando risorse, convinti che sia il sapere il motore autentico di ogni sviluppo e che solo l’innovazione e la ricerca siano gli strumenti necessari alle economie per uscire dalla crisi. La strategia del governo nell’affrontare la crisi è dunque sempre la stessa: tagliare risorse pubbliche anziché investire su politiche di sviluppo creando così sempre più diseguaglianze e ingiustizie sociali. Non a caso il patto di stabilità toglie il 5 per mille alle onlus che si occupano di sociale e disabilità ed incrementano i fondi al CEPU ed alle scuole private. Se il ddl di riforma, come pare, sarà approvato, esso trasformerà le università in aziende, snaturando il diritto allo studio e precarizzando ulteriormente la figura dei ricercatori. E circa i 300 milioni stanziati come trovata dell’ultimo momento, per ricercatori meritevoli e per le eccellenze, c’è da dire che, a leggerlo, il ddl sostenuto dal governo, è l’esatto contrario della politica del merito. Infatti, se fosse approvato la mole spropositata di norme, circa 500 disposizioni e 1000 regolamenti, avrebbe l'effetto di rafforzare la convergenza degli atenei verso un modello unico, quello appunto preferito dal legislatore, che non è detto sia il più efficace. Una volta realizzata questa uniformità normativa non si capisce cosa si dovrebbe valutare. La qualità di un ateneo, ad esempio, dipende per grande parte dai suoi professori, ma se la politica delle risorse umane è ingabbiata in un pesante apparato normativo le performance risulteranno inevitabilmente molto appiattite. Al contrario, la politica del merito presuppone la promozione di differenze e di innovazioni che poi si espandono per emulazione e per competizione, innalzando la qualità del sistema. Come dice Walter Tocci, il vecchio modello dell'università di élite che funzionava dignitosamente con pochi studenti, è stato tirato come un elastico per rispondere a una popolazione studentesca dieci volte maggiore senza che intervenisse nessuna sostanziale differenziazione. Ed è molto difficile che tutti gli atenei sappiano fare bene le stesse cose, dalle lauree brevi ai dottorati, dalla didattica alla ricerca avanzata. La vera riforma avrebbe dovuto promuovere una nuova concezione dell’università pubblica. con un'offerta molteplice di percorsi formativi e diversi assetti dell’attività di ricerca. Infine, le università telematiche, che sono un esempio lampante del cattivo uso che spesso si fa in Italia dell’innovazione tecnologica. La formazione a distanza doveva essere uno strumento diffuso in tutto il sistema e ben integrato con la normale attività didattica. Invece, si è deciso di farne atenei finti che costituiscono una sorta di lascia passare per i peggiori vizi dell’accademia e servono solo a vendere i titoli di studio e le cattedre. I meccanismi son ben noti: si bandiscono concorsi non per assumere i vincitori, ma semplicemente per ottenere idoneità da spendere negli atenei pubblici. Tutto ciò è un regalo della Moratti, anche lei a suo tempo presentata come campione della meritocrazia sulle colonne del Corriere della Sera e del Sole-24 Ore. Mussi bloccò le nuove autorizzazioni e poi la Gelmini si era impegnata ad affrontare la questione dopo avere ricevuto un rapporto molto negativo dal CNVSU. Non solo l’impegno non è stato mantenuto dal ministro, ma si affaccia la vera soluzione in un documento inviato il 27 ottobre alla Crui per il parere di competenza. In esso compare il seguente obiettivo: ..la trasformazione delle università non statali telematiche esistenti in Università non statali (non telematiche), su proposta delle università interessate, che preveda l’erogazione di almeno la metà della propria offerta formativa con modalità tradizionale o mista”.

Sembra solo un gioco di parole, ma l’effetto è devastante. Le attuali telematiche assumono il rango della Bocconi o della Luiss ed entrano a pieno titolo nel relativo capitolo di finanziamento che è stato appena integrato di 25 milioni con l’emendamento della maggioranza alla Camera. Ma non finisce qui, le nuove università potranno, come dice la norma, presentare un’offerta mista, in parte a distanza come è già adesso e in parte con didattica frontale tradizionale. Sembra una concessione innocua, ma per capirne le ragioni bisogna fare un esempio. La E-Campus è una delle più potenti fra le telematiche – annovera ad esempio tra i suoi docenti un certo Marcello Dell’Utri – e soprattutto è direttamente collegata al Cepu. Con il decreto Gelmini questa struttura, dotata di 120 sedi in tutta Italia, può entrare nel sistema pubblico delle università non statali facendosi trascinare dalla trasformazione di E-campus. E il gioco è fatto. D’altro canto, Berlusconi di recente ha visitato la sede del Cepu additandolo come esempio da seguire per l’università italiana. E così la meritocrazia e la cultura possono passare dalle chiacchiere agli affari. 

24 Novembre 2010 - Carlo Di Stanislao